Generalità. Una delle mutazioni nei geni dei fattori della coagulazione, identificata negli ultimi decenni è quella scoperta nel 1994 da Bertina e collaboratori, studiando il DNA di pazienti con pregressa storia di tromboembolismo venoso. Si riscontra nella zona non tradotta del gene del fattore II (detto anche protrombina). E’ denominata G20210A e si traduce fenotipicamente in aumenti moderati (nell’eterozigote), o più marcati (nell’omozigote) dei livelli di protrombina nel plasma. La presenza della mutazione, identificata con test genetico sul DNA, è un fattore di rischio per trombosi venosa (forse anche arteriosa, almeno in pazienti selezionati). Anche gli aumentati livelli di protrombina (iperprotrombinemia) sono un fattore di rischio per trombosi, anche indipendente dalla presenza della mutazione. Non tutti i soggetti con la mutazione hanno la iperprotrombinemia, come pure non tutti i soggetti iperprotrombinemici sono portatori della mutazione. In altre parole, esiste una notevole sovrapposizione dei livelli di protrombinemia rispetto alla presenza della mutazione e non è quindi possibile distinguere i portatori dai non portatori, solo sulla base della misura della protrombinemia.
Cosa fare. La sola misura della protrombina, come test di screening per decidere poi chi avviare al test genetico, come sarebbe logico fare, non è applicabile. Bisogna pertanto cercare la mutazione già in prima battuta. A stretto rigore, visto che la sola iperprotrombinemia è di per sé un fattore di rischio (indipendente dalla presenza della mutazione), bisognerebbe anche misurare i livelli di protrombina. Nella pratica si cerca solo la mutazione.
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