Nel caso in cui membri della stessa famiglia siano gravati da un aumentato rischio di tromboembolismo venoso (TEV), definito come occlusione delle vene profonde delle gambe e embolia polmonare, si parla di trombofilia ereditaria.
In questo primo articolo affronteremo il problema sulla utilità delle misure di laboratorio per identificare le trombofilie ereditarie. Negli articoli che seguiranno valuteremo in quali pazienti e quando eseguire questi test.
A partire dal 1980, molto si è scritto sulla necessità di eseguire test di laboratorio per valutare il rischio di recidiva di TEV.
I pareri sull’associazione dei test di trombofilia e la recidiva di TEV sono contrastanti. Taluni autori sostengono che i test non siano utili perché non esiste una chiara associazione fra il risultato del test e il rischio di recidiva. Pertanto, oltre a non aiutare nella decisione clinica, potrebbero essere dannosi, perché comporterebbero spese eccessive per il SSN, ma anche inutili preoccupazioni per il paziente.
Altri autori sostengono il contrario, argomentando che l’associazione causa/effetto esiste. La verità sta nel mezzo e in questo contributo cercherò di spiegare perché.
Fra le condizioni trombofiliche ereditarie utilizzate per valutare il rischio di recidiva di TEV possiamo considerare le carenze congenite di antitrombina, proteina C, proteina S, che si possono cercare con test su plasma. Esistono poi alcune mutazioni protrombotiche nei geni del fattore V (FVLeiden) , o nel gene del fattore II, che sono anch’esse associate a rischio di recidiva e possono essere identificate sul DNA.
Inoltre, fra le cause acquisite di trombofilia, che aumentano il rischio di recidiva per TEV, vanno considerate gli incrementi dei livelli dei fattori procoagulanti e la presenza di anticorpi antifosfolipidi. Mi occuperò dei primi, perché sull’utilità della ricerca degli anticorpi antifosfolipidi esistono pochi dubbi.
I lavori scientifici degli ultimi 30 anni hanno contribuito a valutare il rischio relativo di TEV nei soggetti che hanno come unico difetto di laboratorio l’aumento dell’attività di alcuni fattori della coagulazione quali i fattori VIII, IX, XI e fibrinogeno. È stato dimostrato in studi caso-controllo che l’aumento di uno di questi fattori è associato con il rischio di TEV. Tuttavia, molto spesso la forza dell’associazione è abbastanza debole e ha fatto dubitare che queste misure possano contribuire a stimare efficacemente il rischio di TEV. Una eccezione potrebbe essere il FVIII. Numerosi studi dimostrano come un aumento dei livelli di FVIII possa essere considerato come fattore di rischio per primo evento, ma anche per recidiva di TEV. A seguito di ciò, alcuni laboratori hanno deciso di inserire nel pannello di laboratorio per la trombofilia anche la misura del FVIII. Io penso che questa misura, se usata in associazione con gli altri parametri, possa essere, sebbene non determinante, di aiuto per stabilire il rischio di TEV. Ad es., un soggetto portatore di una carenza congenita protrombotica avrà un rischio di recidiva per TEV più alto, se presenta anche elevati livelli di FVIII.
È importante sottolineare come la presenza di una delle carenze (mutazioni) di cui sopra, non determini con certezza l’insorgenza del TEV e della sua recidiva. Esistono soggetti portatori che non svilupperanno mai il TEV, mentre altri, magari nell’ambito della stessa famiglia e con la stessa carenza, che lo svilupperanno. Le ragioni di queste differenze non sono conosciute, anche se l’ipotesi più probabile è che possano essere dovute alla presenza concomitante di altre mutazioni, non ancora note, che possono attenuare o accentuare l’effetto delle carenze di cui sopra. Inoltre, è possibile che la carenza possa rimanere silente nel soggetto portatore, ma esitare nel TEV in occasione di condizioni acquisite (cancro, immobilizzazione, contraccettivi orali, terapia ormonale sostitutiva, gravidanza/puerperio, sindrome da anticorpi antifosfolipidi, ecc.).
Personalmente ritengo che la questione fra favorevoli e contrari ai test per la trombofilia ereditaria si possa risolvere con buon senso e sulla base degli argomenti che di seguito provo ad esporre.
Le argomentazioni dei contrari ai test sono basati sul fatto che alcuni studi avrebbero dimostrato che essere portatore di una delle carenze di cui sopra non è invariabilmente associato al rischio di recidiva. D’altro canto, però, pochi dubitano che la carenza congenita di antitrombina sia un fattore di rischio forte per recidiva di TEV. Al medesimo tempo, pochi dubitano che la presenza di talune carenze congenite di proteina C o S e la presenza delle mutazioni del FVLeiden o nel gene del fattore II allo stato OMOZIGOTE siano fattori di rischio forti per recidiva di TEV.
Questo è tanto più vero quando si considera che negli studi clinici randomizzati, per valutare l’efficacia di nuovi farmaci antitrombotici, i pazienti di cui sopra, sono esclusi, perché il loro rischio di recidiva TEV è considerato elevato e non sarebbe quindi eticamente ammissibile privarli di un trattamento di provata efficacia.
Ma se le cose stanno così, bisognerebbe spiegare come facciamo a identificare I CARENTI DI ANTITROMBINA o gli OMOZIGOTI per la mutazione FVLeiden o FATTORE II, se non eseguiamo l’indagine di laboratorio? C’è forse un altro modo per riconoscere questi pazienti?
Giungo allora alla conclusione che i test di trombofilia servano, a patto che essi vengano usati con discernimento, scegliendo fra i tanti disponibili quelli per i quali c’è maggiore evidenza di associazione fra carenza (mutazione) e rischio di TEV (antitrombina, proteine C/S, ricerca delle mutazioni FVLeiden e protrombina) e soprattutto selezionando i pazienti da arruolare allo studio di laboratorio, smettendo una volta per tutte di assumere atteggiamenti massimalisti del “tutto per tutti” , o del “niente per tutti” , che mortificano la scienza e la ragione e si traducono in un danno per il paziente e per l’intera comunità.
Vorrei infine segnalare che, nonostante gli sforzi messi in campo dalla ricerca, non esiste ancora un test globale validato, che possa essere usato come test di screening per identificare con certezza tutte le carenze (mutazioni) di interesse. Questo test sarebbe di estrema importanza, perché consentirebbe di effettuare uno screening preliminare, avviando poi solo i pazienti positivi alla ricerca specifica della carenza (mutazione), con notevole risparmio per il SSN. In attesa che questi test globali siano disponibili, l’alternativa praticabile è che lo screening trombofilico prenda in considerazione tutte le carenze (mutazioni) di interesse, anche perché c’è evidenza che i soggetti portatori di carenze (mutazioni) multiple, abbiano un aumentato rischio di TEV, rispetto ai portatori di carenze (mutazioni) singole.
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